Monte Vettore e monte Torrone

Una sublime e solitaria escursione sulle creste dei Sibillini e avvolto nella nebbia.

C’era un conto in sospeso col Vettore e le sue cime secondarie. La scorsa settimana con Giorgio siamo stati ricacciati a valle da una giornata uggiosa piena di pioggia e neve. Duecento chilometri e un’alzataccia caduti nel vano tentativo di raggiungere le vette mancanti alla nostra raccolta di traguardi. Ad una sola settimana di tempo si ripropone l’opportunità. Con Giorgio impegnato in famiglia questo week end avevo deciso di passarlo dai miei. La probabilità di essere da solo a salire verso Ancona mi ha fatto balenare la possibilità di tentare l’accoppiata montagna-famiglia nello stesso giorno. Il disegno di ripetere l’alzataccia , tentare di raggiungere il Pizzo e il Torrone e da lì una volta ridisceso, continuare verso Ancona stava maturando dentro di me. Un venerdì tremendamente piovoso e ventoso crinava le speranze di una agevole salita e solo la testardaggine e il fatto di aver ormai preparato lo zaino le sere precedenti hanno fatto prendere la decisione di provarci comunque. Il rischio era l’ennesima alzataccia e l’ennesima rinuncia per impraticabilità del terreno di avventura, ma era un rischio da correre a cuor leggero. Se fosse andata male mi sarei già trovato a metà strada da Ancona e la parte positiva è che avrei visto i miei fin dalle prime ore della giornata di Sabato. La sveglia ha suonato alle 3. Tutto pronto, solo il tempo di una colazione abbondante che alle 3,30 ero già col motore acceso ad attraversare una Roma deserta e haimè piovosa. Ancora una partenza all’impronta della pioggia, leggera leggera ma certo non bene augurante. Non rappresentava un problema la pioggia questa volta perché la montagna era solo un di cui della giornata. Quindi a cuor leggero mi ritrovavo sulla Salaria in meno di mezz’ora. A tratti lungo la strada la pioggia si alternava alla nebbia ma mai ho avuto la sensazione di andare incontro ad una giornata favorevole dal punto di vista climatico. Riflettevo sulle previsioni meteo che prevedevano una discreta giornata di bel tempo e speravo in cuor mio, dietro ad ogni curva di poter avvisare motivi di speranza. Il buio non le aiutava e fino ad Amatrice, anche se non pioveva, la strada dava chiari segnali di pioggia recente. Ho preso a salire per Forca di Presta, da Arquata del Tronto, con la pur flebile speranza di poter comunque salire, ormai svanita. Oltrepasso i paesi deserti e silenziosi di Piedilama e Pretare quando dopo i primi secchi tornanti distinguo il primo chiarore dell’alba dietro le dolci propaggini della Laga. Salgo ancora mentre la luce dell’alba mi riconsegna il mondo. Il Vettore è ammantanto di neve, la prima neve della stagione, e quel cielo ancora scuro sopra è , … è … stento a crederlo … è sereno!!! Un diritta linea nel cielo da sud-est a nord-ovest delimita lo scorrere del fronte nuvoloso. E’ grigio e compatto, ma si allontana, velocemente! L’entusiasmo riprende forza, credo al miracolo, salgo le coste del Vettore fino a Forca di Presta; la macchina nelle ultime curve tende a non rimanere diritta, in strada c’è un sottilissimo strato di neve ghiacciata, probabilmente la traccia che quella fuggevole perturbazione ha lasciato mentre in cielo il colore azzurro comincia a diventare predominante. Continuo a guardare quel fronte nuvoloso che si allontana, l’alba che ancora non ha ben rischiarato il mondo e rompo gli indugi. L’aria è fredda e preferisco completare i preparativi, almeno quelli possibili, in auto. Gli scarponi, il pile, tutto in uno spazio esiguo ma al caldo; solo gli ultimi preparativi avvengono all’esterno; chiudo l’auto, infilo le chiavi nella tasca e parto ancora ammantato dal caldo del veicolo. Salgo i primi metri del sentiero tra un chiarore più dovuto al riflesso della neve che alla luce del giorno. Il mondo è bianco, un neanche tanto leggero strato di neve copre il sentiero e i prati del Vettore fin dalla strada. Sono le 6,30 quando imbocco deciso il sentiero. Non è freddo, almeno così mi sembra, al contrario delle minacciose previsioni. Continuo a tenere d’occhio la perturbazione che continua ad allontanarsi; cerco tracce di nuvole verso nord e anche se la visuale è compromessa dalla mole del Redentore, l’orizzonte sembra libero. E’ avvenuto il miracolo in cui speravo. Passo dopo passo salgo il sentiero e scopro il Piani di Castelluccio che sembrano essere un arabesco dalle tonalità del bianco. Uno spettacolo suadente e fiabesco. Scatto delle foto. Nel frattempo i primi raggi di sole scoprono le piramidi di Cima di Prato Pulito e del Vettore. La visuale spazia fino alla croce sommitale con delle dominanti di rosa che regala attimi di stupore. Il contrasto col cielo azzurro si fa spiccato e bene augurante. In meno di un’ora arrivo sulla gobba del Vettoretto, in tempo per godere dell’alba e dei raggi del sole che filtrano tra le nuvole ancora recalcitranti a voler lasciare il passo. Nel frattempo si alza un vento fresco trasversale che mi preoccupa solo in vista della cresta di vetta. Continuo a salire, mi aspetta solo il traverso evidentissimo fino al rifugio Zilioli. Il sole domina lo scenario, così come la neve che sopra quota 2000 diventa più spessa e gelata. Quando la pendenza comincia a crescere il procedere diventa difficoltoso; non vorrei montare i ramponi fino al rifugio, ma nel tratto più ripido incontro le prime serie difficoltà. Ostinato scaletto un po’; è pigrizia pura e lotto con me stesso pur di passare fino a che non scivolo. Manco la presa, scivolo e riesco a fermarmi in pochi metri aiutato dai bastoncini. Mi rialzo e fatico a raggiungere il sentiero. Pochi passi e scivolo di nuovo. Questa volta per un tratto più lungo, e a stento mi fermo. Il rischio non c’è, più sotto, male che vada, mi fermerei quando la pendenza si spegne sulla spalla del Vettoretto; riprovo a salire di nuovo ma questa volta mi devo arrendere all’evidenza. Per non scivolare una terza volta e per non voler essere blasfemo verso chi è caduto tre volte e ha segnato la storia, mi ricavo un sedile nel ghiaccio. Infilo i bastoncini a mo di ancora e mi organizzo per montare i ramponi. La manovra è difficoltosa ma ci riesco. Rimetto i bastoncini nello zaino e recupero la piccozza. L’uscita diventa tipicamente invernale. A questo punto procedere sul sentiero diventa facile, volo. In venti minuti sono al rifugio. Il panorama è splendido. L’azzurro domina, il Vettore è in forma splendida ammantato di neve. Entro nella parte aperta del rifugio per coprirmi dal vento, ne approfitto per spogliarmi, riposare e mangiare qualcosa. Dall’uscio del rifugio ripasso a vista e con la memoria le creste fino al Redentore; mi rendo conto della familiarità col territorio, una sensazione appagante. Un quarto d’ora di pausa e riprendo il sentiero. Carico lo zaino in spalla, chiudo accuratamente la porta del rifugio e svolto l’angolo verso il Vettore. E trovo la sorpresa che mi fa temere sulla giornata che ho davanti. Prime nuvole sfilacciate salgono e superano le vette salendo dal versante marchigiano. Nulla di che a vederle così se non il temere che siano solo le prime avvisaglie di nuvole, favorite dai raggi del sole, in risalita da fondovalle. Salgo con un po’ di ansia nel cuore; lo spettacolo verso le creste sopra il lago è abbagliante e ci terrei che lo spettacolo rimanesse anche in cresta. Scatto qualche foto ma l’occhio è sempre la sopra. Salgo veloce, ma con la stessa velocità salgono anche le nuvole, che diventano sempre più scure e che cominciano a scendere verso la conca del lago. Lo temevo e stava avvenendo. La croce di vetta che dominava il percorso sparisce tra le nuvole e ben presto anche io mi trovo avvolto e senza più riferimenti. Conoscendo la zona e avendo tracciato mentalmente il percorso giungo comunque agevolmente la prima delle due croci di vetta proprio mentre le nuvole si diradano e lasciano passare dei fazzoletti di azzurro cielo di una intensità inconsueta. Procedo sperando almeno in una mutevolezza del fronte nuvoloso, raggiungo la vetta del Vettore che sono le 9 precise. Verso le Marche la vista è proibita, la conca del lago e le creste sovrastanti sono sfrangiate da fazzoletti di nubi velocissime. La cresta fino al Torrone gioca a nascondersi. Individuo la vetta principale della cresta che coincide con il mio traguardo, mi fisso in mente i contorni. La vista va e viene ma è affascinante; una cresta affilata, il lato della montagna verso il lago che precipita con una verticalità insospettata e che si perde nel niente delle nuvole, davanti una sinuosa traccia affilatissima che fotografo e che oggi rivivo nelle foto con l’entusiasmo di quel momento. Decido di non indugiare sulla vetta del Vettore per guadagnare il Torrone con maggiore visibilità, ma dopo pochi passi tutto sparisce alla vista. E’ facile proseguire perché il tragitto, anche se sinuoso è completamente parallelo alla sottilissima cresta. Ho una visibilità a tratti di una decina di metri. Poi si allunga e scorgo la vacua sagoma della vetta del Torrone ancora lontana; un paio di vette secondarie si fanno memoria e anche se nel nulla procedo spedito. La sensazione è comunque bellissima, so di perdermi uno spettacolo di creste e neve ma l’intimità di quel momento appaga. So di essere solo, anche il vento si ferma e a quel punto so che non rivedrò più l’orizzonte. Non c’è più nulla intorno a me; la neve si confonde con l’orizzonte, tutto è indistinto. Solo la linea di cresta riesco a distinguere e la seguo a debita distanza dal ripido versante della conca del lago. Anche gli occhi reclamano la loro stanchezza, non riescono a mettere a fuoco nulla. Tutto il mondo è sparito. Una folata di vento rimescola un po’ le nuvole, le sfilaccia quel tanto che basta per farmi intuire il traguardo; è vicino e lo raggiungo in un quarto d’ora di cammino ulteriore intorno alle 10. Lo raggiungo quando tutto intorno è sparito di nuovo. Vorrei tanto godere della vista sul lago; mi fermo, sosto un po’ con la speranza che per un attimo si diradino le nuvole. Passa un quarto d’ora e nulla succede se non il crescere della confidenza con quel mondo. La solitudine è imperiosa; nel nulla ci sono solo io. Mi scatto delle foto, dovrò crederci che ero in vetta, avrei potuto essere ovunque. Ma proprio quando decido che le speranze non possono andare oltre una folata di vento regala una parziale visuale verso le creste del Pizzo del Diavolo. La macchina fotografica è già piazzata, ce la faccio; è uno spettacolo e acquisisco la consapevolezza del luogo. Dura poco più di un attimo, il tempo di un sogno. E mi ritengo comunque soddisfatto. Mi prometto di tornare perché lo spettacolo che offre il luogo deve essere mio e mi incammino per il ritorno. In leggera ma continua salita la solita cresta e questa volta le mie tracce svolgono il ruolo del mio filo di Arianna. Alle 11,15 sono di nuovo in vetta al Vettore. Il tempo di un paio di foto senza sfondo e mi incammino per la mia seconda meta , il Pizzo di Pretare. Distinta la cima nel momento della prima salita , trovo a mala pena la direzione. Attimi in cui la visibilità mi da tregua mi fanno proseguire verso la meta. Intorno alle 11,40 dovrei essere sul leggero promontorio del Pizzo, ma proprio in quel momento dal versante marchigiano sale una nuvola nerissima. E’ praticamente buio intorno a me e la visibilità praticamente azzerata. Dovrei essere in vetta, ma il condizionale è d’obbligo. Non vedo a due metri; non mi va nemmeno di scattare le consuete foto del successo tanto vengo assalito da uno stato d’ansia. La nuvola trattiene tutto, luce e anche la mia sicurezza. Non ho paura, il panico è altra cosa ma la situazione è di quelle non vissute. Decido di tornare sui miei passi, di non perdere le tracce per tornare alla familiare croce del Vettore. Ma ciò che in altre situazioni mi era riuscito questa volta non riesce. Perdo le tracce dei ramponi, un po’ perché la neve è gelata e le tracce sono poco profonde, un po’ perché non si vede un accidente di niente. Da li ad un quarto d’ora intuisco di essermi perso. Non mi ero mai spinto su quel pizzo e la conformazione del terreno senza una spiccata pendenza non mi aiuta. Prendo una consistente pendenza in discesa, per un po’ la seguo convinto di starmi per portare verso le croce secondaria del Vettore, ma si fa sempre più consistente la pendenza; capisco di starmi per spostare verso est, credo. Viro verso ovest, o perlomeno così pensavo di fare. L’obiettivo ricordo era sempre quello di rintracciare la croce secondaria del Vettore. Nulla mi è familiare ma riprendo a salire; un costone ripido davanti a me sembra condurre ad una cresta. Decido di raggiungerla, ma la salita è infinita. La pendenza aumenta si fa importante. Procedo sulle punte dei ramponi e capisco di essere in una ripidità che non so dove possa portarmi. La visibilità non c’è e faccio finta di non pensare a cosa c’è sotto. Guardingo procedo alla conquista della cresta; ogni passo è valutato, la piccozza per essere la prima uscita lavora come poche volte ha fatto. Quella cresta che nella nebbia sembra essere lì si sposta ad ogni passo. Il fiato si fa grosso dalla stanchezza. Mi impongo una sosta e soprattutto di non pensare. L’obiettivo è raggiungere il piano della sommità qualsiasi sia. Il tempo sembra dilatato e non passare mai quando superate alcune sporgenze rocciose che non sapevo localizzare sento nelle gambe che la pendenza diminuisce. Rinfrancato continuo a salire e finalmente riesco a procedere quasi diritto. Da qualche parte , in cima, sono arrivato, il pericolo capisco essere svanito. Non vedo nulla ma sono rinfrancato, anzi no comincio a vedere qualcosa e sempre più distintamente scorgo la croce di vetta del Vettore. Stupito dell’errore e soprattutto della posizione mi rinfranco. Rido per la riconquistata serenità ma vengo colto da un senso di impotenza per come mi ero perso. Ho pensato di procedere in un senso e sono andato per quello esattamente contrario. Ho preferito lasciare le riflessioni a momenti più sereni. Individuata la croce ho tratto con certezza il sentiero di ritorno, in cinque minuti raggiungo la seconda croce e di lì ho preso la cresta verso lo Zilioli. Scendendo è accaduto quello che temevo, le nuvole si sono diradate e una volta al rifugio l’orizzonte era sgombro. Mi sono fermato per mangiare e rilassarmi. In fondo si è trattata di una bellissima esperienza. Mi sono sentito un po’ preso in giro per i panorami negati, ma gli obiettivi sono stati centrati lo stesso. Un peccato a metà, suffragato dalla promessa di tornarci, sempre con la neve ma in una giornata di visibilità ottima. La discesa è stata veloce; due chiacchiere al rifugio con chi saliva in quel momento e giù veloce per non rubare altro tempo ai miei che nel frattempo si erano sincerati telefonicamente sulle mie condizioni. All’1,30 ero in auto mentre l’orizzonte in vetta era ancora libero e luminoso. In qualche maniera anche oggi il Vettore non mi ha voluto completamente. Ma l’esperienza è di quelle fondamentali, che fanno crescere e danno sicurezza. Oggi so di non temere la montagna e di saper dominare le situazioni. L’ultimo pensiero della giornata è per una dedica. Alla mia famiglia, a cui ho tolto un po’ di quel poco tempo che ogni tanto gli concedo. Nessuna rivalità tra due amori importanti. Anzi, per me si tratta di una giornata unica divisa e condivisa tra due grandi riferimenti.